Parere ufficiale di AIISA sulla disinfezione continua

Robot multifunzionale per la pulizia dei condotti dell'aria

Queste sono le conclusioni di AIISA (Associazione Italiana Igienisti Sistemi Aeraulici) dopo la tavola rotonda ANAM12.

Nel testo si possono leggere i pro, i contro, l’efficacia e la convenienza del suo uso.

Gli impianti di trattamento aria e il falso mito della sanificazione attiva

Da diversi mesi, il tema della sanificazione degli impianti di trattamento aria è al centro dell’attenzione, soprattutto da parte di aziende ed esercizi commerciali, quale misura efficace di contrasto alla diffusione del Sars-Cov-2. In riferimento alle Linee Guida del 5 Ottobre 2006 e 7 Febbraio 2013, adottate dalla Conferenza Stato-Regioni e Provincie Autonome, è ormai noto che tale attività possa essere dichiarata conforme solo se composta da due operazioni distinte ma inscindibili: la fase di pulizia, per eliminare alla base la fonte di contaminazione e quella successiva di disinfezione. Tuttavia, a seguito della pandemia da COVID-19, si è assistito ad una crescita esponenziale di pratiche igieniche scorrette che, definite erroneamente di “Sanificazione Attiva” si limitano, in realtà, a svolgere una disinfezione, attraverso l’erogazione nel flusso d’aria degli impianti o degli ambienti di molecole e agenti con elevate capacità ossidanti (perossido di idrogeno, ozono, idrossili, ioni negativi, ecc.).

Si tratta di un tema molto delicato che presenta alcuni aspetti critici legati non tanto alla loro efficacia in senso assoluto, quanto più all’ambito dell’igiene aeraulica, ovvero alla loro specifica applicazione all’interno degli impianti HVAC. In un mercato che vede il rapido moltiplicarsi di queste soluzioni, le tipologie più comunemente utilizzate negli impianti di trattamento aria sono basate, in genere, sulle tecnologie NTP (Non Thermal Plasma) o PCO (Photocatalytic Oxidation). Nel primo caso, l’azione biocida si fonda sul processo di ionizzazione dell’aria mediante plasma freddo e, per questo, sono meglio conosciuti come “ionizzatori”. La PCO, invece, conosciuta anche come ossidazione fotocatalitica, è una reazione chimica che imitando la fotosintesi clorofilliana, genera radicali ossidrili e perossido di idrogeno, ovvero acqua ossigenata, in grado di eliminare sostanze inquinanti. Una tecnologia sviluppata e utilizzata in ambito aerospaziale per la sanificazione degli ambienti destinati alle esplorazioni spaziali.

La premessa principale è che questi sistemi possono costituire un valido strumento per assicurare la salubrità dell’aria, solo se la loro azione viene dispiegata all’interno di un impianto aeraulico pulito, privo di polveri, particolato e contaminanti chimici. I depositi di particolato sulle superfici, infatti, forniscono un ottimo riparo ai microrganismi che possono così sopravvivere ai trattamenti con agenti disinfettanti. In altri termini, la loro installazione non esime dalle attività di ispezione periodica degli impianti e di pulizia degli stessi, quando necessario. Una seconda considerazione riguarda le grandi quantità d’aria che vengono trattate dagli impianti aeraulici e l’effetto di eccessiva diluizione che possono provocare nei confronti degli agenti immessi al loro interno.

Dobbiamo considerare, infatti, che impianti di piccola taglia sono in grado di processare ed erogare fino a sette/ottomila m3 d’aria all’ora, mentre la portata d’aria può raggiungere anche le molte decine di migliaia di m3 all’ora se si parla di impianti di maggiori dimensioni, destinati a spazi molto più ampi. Pertanto, anche installando uno o più dispositivi di “sanificazione in continuo” all’interno dello stesso impianto, dove l’aria processata e la velocità di transito sono elevate, le quantità e i tempi di permanenza dell’agente antimicrobico possono risultare del tutto insufficienti. In aggiunta, i test di efficacia sono realizzati prevalentemente in aria ambiente e con condizioni ideali di funzionamento. Ragione per cui non risultano indicativi rispetto alla realtà impiantistica cui sono destinati, nella quale le condizioni di funzionamento sono tutt’altro che standardizzate e poco prevedibili. Una riserva aggiuntiva all’uso indiscriminato di tale tipologia di apparati, o almeno di quelli che agiscono attraverso la produzione di agenti disinfettanti di natura chimica, deriva dal rischio che si sviluppi una resistenza acquisita da parte dei microrganismi, nei confronti dell’azione esercitata dal principio attivo impiegato.

In primo luogo, occorre specificare che sono tre i tipi di resistenze che i microrganismi possono manifestare nei confronti dell’azione di agenti antimicrobici: intrinseca, fenotipica e cromosomica. Nel nostro caso quella che si rileva maggiormente è la terza, che si verifica quando un microrganismo diventa immune all’azione di un biocida attraverso una mutazione del DNA, oppure grazie al trasferimento, da parte di un organismo diverso, di geni in grado di indurre resistenza a specifiche sostanze. È risaputo, infatti, che un eccessivo o scorretto uso dei principi disinfettanti favorisca l’insorgenza e la diffusione di ceppi batterici ad essi resistenti. Si tratta di un’espressione del tutto naturale dell’evoluzione: maggiore è l’utilizzo di una molecola, maggiori sono le probabilità che i microrganismi acquisiscano una sorta di immunità. Ragion per cui è estremamente importante utilizzare i prodotti disinfettanti nelle concentrazioni e secondo le modalità indicate dal produttore.

Da qui sorgono le maggiori perplessità circa l’impiego degli apparati di “disinfezione chimica in continuo”. Il loro funzionamento in presenza di persone, infatti, si basa sull’erogazione di agenti disinfettanti in continuo a basse concentrazioni, per lunghi periodi di tempo. Ma questa appare essere proprio una delle possibili condizioni, in grado di portare allo sviluppo, nelle popolazioni microbiche, di una resistenza ai principi attivi cui sono esposte. Un ulteriore elemento di preoccupazione può essere poi costituito dal fatto, che in letteratura scientifica non si trovano studi accreditati di medio-lungo periodo, che abbiano adeguatamente illustrato l’interazione tra il “microbiota umano” e la presenza continua nell’aria di tali principi attivi, per quanto in basse quantità. La definizione di “microbiota umano” fa riferimento all’insieme dei microrganismi che in maniera fisiologica, o talvolta patologica, vivono in simbiosi con il corpo umano. Sebbene tale popolazione microbica sia concentrata in particolar modo nel tratto intestinale, in tutto il corpo umano si stima siano presenti un totale di circa trentottomila miliardi di batteri. Oggigiorno è del tutto riconosciuta l’importanza del microbiota nel mantenimento dello stato di salute dell’uomo. I microrganismi che lo compongono, infatti, non solo supportano le funzioni vitali dell’organismo, come il metabolismo e il sistema immunitario, ma possono anche agire contro la proliferazione dei patogeni. Sempre più evidente appare anche il rapporto che lega il microbiota agli stati psicologici degli esseri umani, per via dell’influenza che esso può esercitare sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e sul sistema serotoninergico. Il microbiota umano, però, può venire alterato, più o meno significativamente, da numerosi fattori esterni, tra i quali si possono annoverare anche le sostanze o i microrganismi presenti nell’ambiente. Da uno stato di equilibrio chiamato “eubiosi”, quindi, si può passare alla condizione contraria di “disbiosi”, cui può essere ricondotta l’aumentata incidenza delle cosiddette “malattie del progresso”, come le patologie metaboliche, cardiovascolari, infiammatorie, neurologiche, psichiche e oncologiche. Ebbene, il ruolo che in questo processo può giocare l’aerodispersione nell’aria ambiente di molecole disinfettanti, in bassa concentrazione ma per prolungati periodi di tempo, non è stato ancora sufficientemente indagato e chiarito.

Infine, un aspetto molto spesso trascurato riguarda i costi relativi alla manutenzione di tutti i sistemi di “disinfezione in continuo” che, talvolta, superano considerevolmente gli oneri previsti per le tradizionali attività di sorveglianza e sanificazione. Da tutte le considerazioni sopra esposte, deriva che la forte pressione commerciale a cui assistiamo oggi sul mercato, tendente ad affermare che la “sanificazione attiva” rappresenta il miglior strumento per assicurare condizioni di igiene degli impianti di trattamento aria e dei locali da essi serviti, va considerata con spirito critico. In nessun caso questi sistemi potranno configurarsi come alternativi ad un serio programma di sorveglianza igienica, da cui deriveranno le attività di sanificazione quando necessarie. Nella migliore delle ipotesi, dopo aver individuato lo strumento in grado di offrire le migliori garanzie, alla luce delle specifiche esigenze igieniche presenti negli edifici, essi potranno essere uno strumento complementare ad esso, a condizione che il loro funzionamento venga controllato da vicino e monitorato nel tempo.